Un'interessante collaborazione tra istituzioni

Il Liceo-Ginnasio "Galvani" è una antica e prestigiosa scuola nata nel 1860, che, tra i molti meriti che può vantare, annovera quello di conservare con ostinazione, sia pure dimenticati e trascurati , quanti più oggetti può del suo passato in forma di fondi librari, strumenti didattici, arredi superati ecc… per la gioia di chi, un po' per caso e un po' con intenzione, li scopre e ne consente la riappropriazione collettiva. E' stato il caso del cofanetto Minerva con le 100 lastre sulla Grande Guerra il cui ritrovamento è stato casuale e ha consentito di ripercorrere le fasi della costruzione della memoria di quella guerra nel nostro liceo, inverando l'affermazione storiografica secondo cui la scuola italiana era diventata un sacrario della guerra a partire dai primi anni Venti.

Poiché la scuola vantava una raccolta di circa 1500 lastre fotografiche, di carattere artistico soprattutto, sia pure impropriamente mescolate e ricomposte, è parso opportuno studiare una collaborazione con un partner adeguato. E' così che è nata, nel febbraio del 2001, tra il Liceo "Galvani" di Bologna , nel quale io insegno, e la Soprintendenza per i Beni Artistici, Storici e Demoetnoantropologici - nello specifico l'Archivio fotografico diretto da Corinna Giudici - una Convenzione , che ha avuto durata quinquennale, per la realizzazione di un progetto didattico finalizzato alla conoscenza, alla valorizzazione e all'uso consapevole di questo vasto patrimonio di lastre fotografiche su vetro, acquisite tra il 1915 e il 1930 per proiezioni didattiche. I soggetti sono prevalentemente artistici - e di questi una grande parte sono di provenienza Alinari - ma anche storici, ornitologici e geologici. Editori ne sono, oltre ad Alinari, Mazo, Croci, Minerva, l'Istituto Italiano per le Proiezioni Luminose e l'Istituto Micrografico Italiano.

Se l'interesse dell'Archivio fotografico è andato alla ricognizione, manutenzione, catalogazione, duplicazione e trasferimento su supporto digitale del suddetto materiale, quello del Liceo è stato anche di recuperare all'uso didattico quel suo antico sussidio, che rappresenta un pezzo del suo passato e del passato della scuola italiana.

Le lastre in vetro 10x8,5, fragili, preziose, da vedere con un proiettore storico di uso complesso, risultavano inutilizzabili per la didattica, il che aveva determinato il loro accantonamento. La duplicazione su pellicola moderna ha consentito di riservare quest'ultimo prodotto all'uso scolastico e di conservare le lastre in vetro nel "Museo della strumentazione storica", presente dal 1999 nel Liceo, nell'ala più antica dell'edificio, e destinato ad incrementare il suo patrimonio.

"Memoria visiva", "memoria letteraria" , "memoria sociale"

Le 100 lastre Minerva si affiancavano ad altri "reperti" molto interessanti: uno stereoscopio a colonna , ideato dal fotografo di guerra Marzocchi, contenente 60 immagini di guerra, il fondo librario che contava circa 140 testi di cui i 17 fascicoli Treves con fotografie del Reparto fotografico del Regio Esercito e 7 pubblicazioni della Bestetti e Tumminelli con panorami di guerra della medesima fonte, la lapide con il bollettino della vittoria , la lapide con gli studenti decorati , l'intitolazione delle aule a studenti-eroi , i premi istituiti alla memoria di alcuni di essi .

"Memoria visiva", "memoria letteraria", "memoria sociale", ossia le tre modalità della memoria della Grande Guerra proposte dallo storico J. Winter, erano ben presenti nel nostro Liceo.

Tutti insieme consentivano di studiare la costruzione della memoria della Grande Guerra nella scuola italiana.

I progetti didattici realizzati in questi anni si sono anche tradotti in numeri della rivista della scuola "I Quaderni di cultura del Galvani" (alle lastre Minerva è dedicato il N.3, Anno 7, Nuova serie, 2001-2002 e allo stereoscopio il N.1, Anno 9, Nuova serie, 2002-2003) acquisendo per questa via visibilità e fruibilità ben maggiori di quanto solitamente avviene alle operazioni scolastiche.

Le 100 lastre Minerva: una guerra ad usum delphini?

In tutti i paesi che avevano combattuto e sofferto la Grande Guerra si sentì, a vicenda terminata, l'esigenza di celebrare lo sforzo collettivo appena compiuto, di onorare il sacrificio dei caduti, di costruire una memoria dell'evento che permettesse ai vivi di superare il dolore e ai morti di essere ricordati come eroi.

La costruzione di tale memoria trovò tutti consenzienti e si giovò di strumenti differenti. Se i cimiteri di guerra e i monumenti ai caduti divennero i luoghi ove celebrare i riti di questa memoria, che prese la forma di una vera e propria religione civil-patriottica, la letteratura memorialistica fu l'occasione per raccontare il sacrificio per la patria, mentre le pubblicazioni a fascicoli, reperibili nelle edicole e stampate mentre la guerra era ancora in corso, fornirono informazione alla pubblica opinione. Immagini fotografiche comparvero numerose sulle pagine delle riviste, che ospitarono volentieri anche illustrazioni di celebri disegnatori, più o meno celebrative e fantasiose.

Quanto più l'evento ne usciva mitizzato tanto più l'orrore della morte veniva superato e si traduceva nel valore edificante del generoso sacrificio per la patria. Il mito indennizzava tutti, vivi e morti.

In Italia l'edificazione della memoria avvenne come negli altri paesi e nessuno fece resistenza alla sacralizzazione dell'esperienza della guerra e alla celebrazione dei suoi eroi, acconsentendo, più o meno coscientemente, a “dimenticare” le sofferenze e gli orrori delle trincee, le negligenze e le omissioni dei massimi gradi dell'esercito ai danni dei fanti, i costi per la società civile.

Solo molto più tardi, cinquant'anni dopo il dramma e in mezzo a tensioni e indignazione, si pensò che l'autentica celebrazione del fante-contadino - il vero protagonista della guerra - passasse attraverso la denuncia della tragedia, che egli era stato costretto a subire, incolpevole e rassegnato, arruolato senza aver partecipato ad alcuna manifestazione interventista.

Sarebbe un errore pensare che sia stato il fascismo a dare il via alla costruzione della memoria della Grande Guerra. Come ha mostrato Isnenghi, tale costruzione cominciò appena conclusa la guerra e venne stimolata dall'alto (poteri pubblici) e dal basso (associazioni e familiari dei caduti) e poté giovarsi di finanziamenti pubblici e privati.

Certo il fascismo, arrivato al potere, capì la forza di quella memoria, che enfatizzò, fino a farne una sorta di mito di fondazione, ben più condivisibile e condiviso della marcia su Roma. Del resto il fascismo si sentì l'erede e il custode dell'arditismo, dell'interventismo, dell'ardore patriottico, dei valori aggressivi della guerra.

Se la memoria della guerra doveva essere condivisa dall'intera società non potevano essere escluse le nuove generazioni che frequentavano le scuole di ogni ordine e grado. Un avvenimento recente entrava così nella vita scolastica per alimentare il patriottismo delle giovani generazioni. La scuola del fascismo, riformata da Gentile nel 1923, si vantò di aver riportato la serietà e il rigore dentro le aule, si vantò di essere una scuola che formava ed educava e non solo istruiva. L'obiettivo di questa scuola era “affiatare” con la vita. L'affiatamento avveniva con un episodio recente che aveva coinvolto tutte le famiglie e quindi tutti i ragazzi, che potevano avervi perso un padre, un fratello, un parente, un conoscente, il che aumentava la risonanza interiore dell'evento e ben disponeva alla costruzione della memoria.

Soprattutto tra il 1925 e il 1928, in occasione del decimo anniversario, gli studenti vennero chiamati a partecipare all'impresa del ricordo, con una campagna ben orchestrata dall'alto, come hanno sottolineato tutti gli studiosi che si sono occupati della scuola del regime. Penso ad Isnenghi, a Zunino, a Fava, a Ostenc.

Il “Galvani” di Bologna, Regio Liceo dal 1860, non sfuggì al coinvolgimento e fece esperienze delle strategie messe in atto dal Ministero per creare nei giovani studenti non tanto una coscienza critica dell'evento quanto un efficace coinvolgimento emotivo, capace di alimentare una sorta di religiosità patriottica, fatta di orgoglio nazionalistico e ammirato rispetto per gli eroi. Libri, lastre fotografiche, lapidi, premi, intitolazioni di aule furono gli strumenti con cui affiliare il giovane adolescente al culto patriottico della Grande Guerra.

Si può supporre che il cofanetto Minerva sia entrato in quegli anni, sussidio didattico innovativo ed eccitante per alimentare il culto della patria.

A scattare le foto erano quindi gli uomini del Servizio fotografico del Comando Supremo, i professionisti accreditati e i semplici fotoamatori. Le prime due categorie erano sottoposte rigidamente al controllo della censura.

Prescrizioni per il servizio fotografico e cinamatografico

26 – E' proibito fare fotografie, schizzi, rilievi, in zona di guerra, a chi non sia specialmente autorizzato dal Comando Supremo del R. Esercito…

27 – Le fotografie e le films cinematogarfiche dovranno essere censurate dalla Sezione Cinematografica dell'Esercito, dipendente dall'Ufficio Stampa.

Delle fotografie dovranno essere presentati alla Censura tre esemplari, bene riusciti, con la precisa dicitura del titolo che sarà apposto per la pubblicazione, esibizione, esposizione, vendita, o distribuzione. Due esemplari saranno trattenuti dalla Censura Militare, il terzo munito del timbro di approvazione e di un numero a stampiglia, corrispondente a quello del catalogo esistente presso il Comando Supremo, sarà restituito. (10)

E' facile intuire che a tale rigida censura potevano sfuggire solo le foto dei semplici amatori, combattenti desiderosi di fissare ciò che vedevano e vivevano. Se ne deduce che la maggioranza delle foto in nostro possesso e fruibili, non avendo questa fonte amatoriale, superò il vaglio della censura e non fu ritenuta “stonata” con l'intenzione del Comando Supremo. Ciò basterebbe per farci guardare con spirito critico le immagini. Dobbiamo essere certi che ci troviamo di fronte non alla rappresentazione della Grande Guerra – come se potesse esistere una rappresentazione oggettiva ed assoluta – ma a quella autorappresentazione del conflitto che il Comando Supremo commissionava e approvava .

Si aggiunga poi che sarebbe un errore pensare che gli scatti fotografici, in generale, siano una memoria oggettiva, neutrale, una trascrizione fedele. La fotografia è rappresentazione, visione attiva, selettiva. Ciò avviene per le caratteristiche della forma espressiva: l'inquadratura sceglie l'oggetto, lo distingue, lo isola, modificando la percezione dell'insieme possibile all'occhio umano.

Questo vale per ogni foto e quindi anche per la fotografia della storia e della Grande Guerra.

Un'autentica disposizione critica nella visione di questi materiali non può dimenticarsi di tutto questo, anzi vi deve aggiungere la censura esercitata dai supremi comandi, l'arretratezza dei mezzi tecnici e il gusto dell'epoca. Per esempio non si può dimenticare che i soggetti fotografati sono quasi sempre in posa, coscienti di essere ripresi, a volte visibilmente soddisfatti. Il cavalletto, l'ingombro dell'apparecchio, i tempi di esposizione non permettevano la realizzazione di réportage di guerra improntati a realismo e crudezza. Più tardi sarebbe entrata nel gusto del reporter e del pubblico fruitore la predilezione per la foto di denuncia, per la foto verità.

L'impressione che si ricava dalla maggior parte delle immagini della Grande Guerra, in generale, e, in particolare dalla visione della nostra selezione, è quella della guerra edulcorata. A guidare il fotografo non è tanto la mala fede di chi deliberatamente occulta quanto l'accettazione piena dei suggerimenti di quella che potremmo chiamare la committenza – cioè il Comando Supremo, che intende offrire al paese un'immagine della guerra depotenziata della sua carica di violenza e sofferenza, una guerra eroica da ricordare con orgoglio. Si configura, comunque, come una mistificazione?

Le 100 lastre di cui la scuola è in possesso provengono dall'istituto Minerva, creato nel 1912 dal Ministero della Pubblica Istruzione per la diffusione delle proiezione di diapositive e filmati cinematografici non solo nelle scuole.

Si può presumere che abbiano fatto il loro ingresso tra il 1920 e il 1928.

Si tratta di un “pacchetto” confezionato ad uso degli studenti, con l'esplicita intenzione di far loro conoscere i luoghi della guerra, gli effetti dei bombardamenti sul paesaggio e sugli edifici di varia natura, la fatica dei soldati, i momenti di vita collettiva, i successi attraverso la presa di Gorizia e la cattura dei prigionieri austriaci. Ci si trova, quindi, di fronte ad un documento nel documento, ad un'interpretazione nell'interpretazione nel senso che questa selezione di 100 immagini tra le migliaia possibili è frutto di una scelta meditata e mirata, che ha ben presente obiettivo e pubblico – un pubblico omogeneo di studenti a cui bisogna far immaginare e ricordare la guerra secondo stilemi molto precisi. Serva di esempio la mancanza della morte in forme esplicite. Su 100 immagini una sola contiene la rappresentazione della morte in battaglia e si tratta di nemici i cui corpi sono mimetizzati col paesaggio. Prevale quindi l'intenzione di censurare l'orrore e la sofferenza facendo prevalere il grandioso e l'epico. Nessuno degli spettatori deve associare la guerra al lutto, al dolore della perdita di un congiunto. Si vuole concentrare l'attenzione su altro. La guerra è anche altro.

Per farsi un'idea della natura e delle caratteristiche della selezione Minerva, più che una visione rispettosa dell'ordine progressivo, risulta utile affidarsi a un criterio tematico , raggruppando le immagini per soggetto. Diventa possibile, sulla base delle presenze, delle prevalenze e delle assenze, una valutazione complessiva ed una comprensione dell'intenzione, che servono anche allo smascheramento.

In 67 immagini su 100 sono presenti gli uomini, che mancano per lo più nei paesaggi di rovine, che sono assai frequenti, al punto che si può dire che la più ritratta sia la guerra-distruzione (27 lastre su 100). L'effetto devastante della guerra è provata sia sulle cose – manufatti umani come case, chiese, industrie, edifici pubblici, ponti – sia sulla natura. L'opera dell'uomo è demolita, compromessa nella sua funzione (1, 2, 5, 10, 54, 55, 56, 57, 77, 78, 81, 82, 83, 86, 93), ridotta ad ammasso di macerie (3, 14, 20, 23, 46, 65, 66, 69, 81, 82, 83, 86).

Si veda la suggestiva lastra 23. Il gigantesco ponte della ferrovia è pesantemente danneggiato. L'arcata ritratta inquadra una figura d'uomo a cavallo, simbolicamente costruttore e distruttore di tale manufatto. C'è la sproporzione fisica tra l'uomo e la sua opera ma c'è anche l'ambiguità dell'ingegno umano che innalza ed abbatte. O forse non c'è nulla di tutto questo. Qualche eco pittorico? L'intenzione di andare al di là della semplice documentazione ? Un'intenzione artistica quindi? Le opinioni al proposito sono divise.

Riprendendo il discorso, si deve notare che non solo l'opera dell'uomo risulta compromessa dall'azione militare ma anche la natura ne esce violata (70, 72, 75). Il terreno si presenta sconvolto dall'artiglieria e gli alberi si trovano trasformati in scheletri. Si consideri la 75. Non più foglie, non più rami, non più forma di alberi, ma mozziconi di tronchi e di rami, radici scoperte in un terreno squassato dai bombardamenti. E' il monte Calvario. E anche metaforicamente calvario fu per questo paesaggio e per gli uomini che agirono in esso. La lastra 78 è molto interessante perché, nel ritrarre le conseguenze del nostro bombardamento del Calvario, ci pone dinnanzi, per l'unica volta, alla morte degli esseri umani. Una lastra su cento. Sono nemici. I loro corpi senza vita si distinguono appena nel paesaggio devastato. Corpi restituiti ad una terra devastata.

Ben presente nelle lastre è anche la guerra-paesaggio (12,13,17,18, 29, 30, 32, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 47, 53, 54, 80). A scopo documentario? In ossequio all'imperante gusto pittoricistico?

Si tratta di paesaggi rocciosi, arsi, pietrosi, senza vegetazione o di paesaggi grandiosi, solenni, spesso innevati, a rendere la sfida all'uomo più drammatica. C'è il Carso pietroso, l'Adamello innevato, la val Raccolana d'estate e d'inverno, il Sei Busi, il Monte Nero su cui fiorirono le dolorose canzoni di denuncia. Ma c'è anche un Freikofel da cartolina illustrata, senza segni di guerra, capace di appagare l'occhio e il cuore.

In questo paesaggio si consuma la guerra-fatica collettiva (31,43, 44, 48, 49, 50, 89, 92) e la guerra- rito collettivo (7, 88, 94, 95, 96). Il messaggio che ancora oggi giunge all'osservatore di queste immagini è che la guerra si fa collettivamente, unendo gli sforzi, condividendo le fatiche, le motivazioni, le attese. Con generosità. Per i compagni, per la patria, per la famiglia rimasta a casa. Il trasferimento delle artiglierie (43, 44) in mezzo a paesaggi inospitali e a difficoltà evidenti impegna il gruppo che nello sforzo si unisce, si fa collaborativo, non consente spazi all'egoismo.

Insieme si assiste alla benedizione della bandiera di un reggimento di nuova formazione (7), insieme si partecipa al solenne momento di consegna di una medaglia d'oro.

Le frequenti scene di gruppo dimostrano che la guerra fu davvero guerra di massa, figlia della modernità. La lastra in tal senso più emblematica è la 99. Uomini in divisa – non importa che siano prigionieri austriaci – con berretto in testa, riempiono interamente il campo visivo, volti difficili da distinguere: la divisa per un verso rende uguali, accomuna, fissa un'appartenenza ma dall'altra spersonalizza, sopprime l'identità individuale.Queste due facce della società di massa sono ben presenti, trasferite alla guerra di nuovo modello.

C'è la guerra-successo : numerose lastre (80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87) sono dedicate alla presa di Gorizia, costata fatica, lotta, sacrificio ma infine raggiunta come testimonia la lastra 84 con la cavalleria sul Corso Francesco Giuseppe la mattina del 9 agosto.

La maggioranza delle lastre ha come protagonisti gli uomini, i soldati, in momenti e condizioni diverse.

Ci sono soldati in trincea o nei ricoveri, realizzati a varie quote e in paesaggi diversi ( 15, 19, 33, 34, 36, 39, 40, 42, 47, 63, 64, 71, 73). E' chiaro che questa è la condizione normale del soldato e viene proposta nella sua durezza senza però indulgere alla drammaticità. Occorre spirito di sacrificio e di adattamento, forza e salute che meritano il rispetto, l'ammirazione e la riconoscenza di chi guarda.

Ci sono soldati in marcia (48, 49, 50, 59, 60, 62). Grandioso il paesaggio innevato dell'Adamello, eroico lo sforzo dell'uomo: la scena è osservata dall'alto ed ha toni epici.

Ci sono soldati impegnati nel trasporto o nell'uso di armi (21, 43, 44, 45). Più nel trasporto che nell'uso. Per celebrare il valore dello sforzo comune, come si notava sopra, piuttosto che mostrare l'aspetto violento o anche “moderno” della guerra.

Ci sono soldati di guardia (37, 38, 51, 52, 53). In difesa di tutti noi che stiamo dietro le spalle, protetti.

Ci sono soldati feriti (23, 24). I soldati soccorsi sono trasferiti in barella sui mezzi motorizzati per raggiungere l'ospedale ed essere curati. Non c'è caoticità. Un senso di compostezza ed efficienza deriva dall'immagine.

Ci sono soldati nemici prigionieri (26, 27, 95, 96, 98, 99). L'intenzione propagandistica è qui più scoperta che altrove. I prigionieri sono molto numerosi – la guerra si configura come un successo – fino a riempire il campo visivo e trattati con grande umanità, facendo attenzione al corpo – il rancio e il riposo – ma anche allo spirito – la messa

Ci sono soldati nemici morti (78). Si tratta dell'unica immagine che ritrae la morte di uomini. Una scoperta mistificazione?

Ci sono i generali (28, 100). Ecco gli uomini da cui dipende il destino degli altri. Cadorna, Joffre e Porro intenti a dialogare. Cadorna che segue un'azione col binocolo.

Prevalgono le scene corali. Sembra non esserci la solitudine per questi soldati, la solitudine della sofferenza fisica, della paura, della spersonalizzazione. Quando vi sono immagini che ritraggono l' individualità la valorizzano come operosa (6) o coraggiosa (52, 53) o atletica (38) o intensa emotivamente (16), comunque fortemente simbolica (93)

Vorrei isolare a questo punto due lastre capaci di sollecitare il gusto di chi come me crede che queste immagini non abbiano solo un valore documentario o propagandistico ma come ogni atto intenzionale umano – che si esprima in una forma fruibile dagli altri - abbiano la capacità di proporre significati agli uomini “vivi” che li considerano.

Ne scelgo due con forte connotazione simbolica, non certo belle in senso estetico: la 59 e la 97.

La 59: un bosco di conifere. Sul terreno, come recita la didascalia, zaini deposti dalle truppe di rincalzo nel Magnaboschi. Zaini a perdita d'occhio. La guerra resta guerra di massa. Zaini al posto di uomini, che si sono liberati di questo fardello e si stanno riposando, forse prendendo una pausa. Lo zaino è il bagaglio, il peso dei doveri e delle sofferenze. Deposto nella marcia di trasferimento, sia pure per poco. La guerra come la vita concede qualche tregua. Quasi a vigilare un pugno di uomini in mezzo alla scena guarda l'obiettivo del fotografo. Non è una bella fotografia secondo i canoni correnti ma risulta assai suggestiva. Se le affianchiamo la 60 troviamo gli uomini in marcia che si sono ricaricati dei loro pesi. La tregua è finita.

E veniamo alla 97. La didascalia informa Incontri di prigionieri che scendono colle nostre truppe che salgono. Una scena piena di uomini ma divisa a metà. A sinistra gli austriaci, prigionieri, che scendono ordinatamente e si allontanano dal fronte per raggiungere un qualche campo di concentramento; a destra gli italiani, equipaggiati per il combattimento, che salgono verso la prima linea. La discesa e la salita sono interpretabili metaforicamente: la sconfitta e la vittoria. Qualche sguardo tra le due correnti, separate da una “terra di nessuno” simile a quella che al fronte separava le trincee avversarie. Ancora uomini in cammino, ancora una metafora della vita, complicata dalla discesa-sconfitta e dalla salita-vittoria. Come ogni giorno, come per ogni uomo. Non si appartiene sempre alla stessa corrente.

Lo stereoscopio Marzocchi: ricordare, documentare, celebrare

La targhetta metallica sulla faccia retta del visore definisce il contenuto “Scene ed episodi – della – guerra italo-austriaca 1915- 18” . Risulta donato alla scuola dal Ministero. Come è avvenuta la scelta delle 60 diapositive? Chi l'ha fatta? Marzocchi, fotografo del Reparto Fotografico del Comando Supremo del Regio Esercito, divenuto imprenditore di sè stesso dopo la guerra, aveva curato un catalogo che dava all'acquirente la possibilità di scegliere. Nel nostro caso ci troviamo davanti non ad un pacchetto di diapositive destinato ad un pubblico generico ma ad una scelta mirata per giovani .

Quale guerra ci restituiscono queste 60 immagini? Quale funzione svolgono questi scatti di Marzocchi rispetto all'evento appena passato? Il fotografo-imprenditore per giustificare la propria iniziativa sostenne che era “per dare ai combattenti che ritornavano a casa e alle loro famiglie un ricordo vivo dei luoghi, delle scene e degli episodi della guerra”. Una funzione rammemorativa e documentaria, dunque, ma anche celebrativa. Ricordare e documentare con qualche censura e celebrare senza fanfare. Questo in estrema sintesi mi sembra il senso.

Ma vediamole più da vicino le lastre stereoscopiche Marzocchi.

Distinguerò tematicamente le immagini in quattro grandi gruppi: i protagonisti, i luoghi, i mezzi e gli effetti della guerra e ne tenterò un riordino alla luce di quella funzione rammemorativa, documentaria e celebrativa di cui dicevo.

I protagonisti .

Sono meno di 10 le scene senza presenze umane il che significa che si vuole rappresentare una guerra che ha avuto come protagonisti gli uomini, i soldati . Si dirà che ci sono delle ragioni tecniche per cui una stereoscopica è tanto più bella quanti più elementi del quadro risultano collocati su piani prospettici differenti. Ciò è molto facile con gruppi umani. E i soldati in queste immagini non sono quasi mai da soli. L'unica eccezione è l'alpino in vedetta, chiaramente in posa, proiettato su uno sfondo grandioso (27). Molte le scene affollate (24, 25, 30, 43, 46, 47), scene vivaci, dinamiche, improntate a naturalezza, che sdrammatizzano la guerra : uomini che si muovono dietro le prime linee e che il fotografo coglie di spalle (24, 25), bersaglieri ciclisti (qui trionfa il valore documentario: chi potrebbe pensare a bersaglieri in bicicletta? Altro che truppe motorizzate!) trincerati lungo una strada (46), Arditi, i famosi Arditi dopo una vittoria (47), in disordine, forse euforici, ma lontani dalle pose aggressive in cui compaiono in altre scene, i soldati della brigata Sassari in riposo dopo un successo (46). Le scene più affollate in assoluto sono quelle che rappresentano prigionieri (57, 59). Di quest'ultima si noti la didascalia “Colonne interminabili di prigionieri”. L'intento celebrativo qui è scoperto come in nessun altro scatto. La guerra è un successo italiano. A proposito di funzione documentaria mi piace sottolineare la 37, Scarico di munizione dalle slitte, perché vi compaiono i cani, animali ignorati a differenza dei muli e dei cavalli.

L'interpretazione dominante offerta dalla fotografia mi pare, comunque, quella della guerra come occasione che unisce gli uomini e ne esalta le qualità, come avveniva nelle lastre Minerva. Si vedano al proposito tutte le scene che rappresentano uno sforzo collettivo (19, 21,26, 28, 56): il guado di un fiume, il traino di un cannone, opere ingegnose come il mascheramento di una strada o la costruzione degli accessi ad un ponte. È impegnata la forza fisica, l'ingegno, la laboriosità, la collaborazione e il cameratismo. Sono mostrati e celebrati valori virili lontani dagli orrori della guerra. Questi, vedremo, sono ridotti alle distruzioni materiali e sottratti – a differenza di quanto farà la letteratura - allo sguardo del fruitore per una sorta di autocensura del fotografo e nel rispetto del gusto dell'epoca. Ci sono uomini che sparano ma l'attenzione è sullo strumento che utilizzano non tanto sull'effetto che producono.

E quando vi sono i feriti l'accento è posto sull'efficienza dei soccorsi (22, 23, 39, 40). I morti non ci sono . Gli scatti ci sarebbero, come dimostrano immagini presenti negli archivi privati ed edite in tempi recenti quando si è cercata una rappresentazione della guerra che a noi pare più vicino al vero e priva di retorica celebrativa.

Un'ultima notazione su un'assenza più che su una presenza: in queste immagini compaiono tanti soldati ma nessun generale. Non Cadorna, non Joffre, non Diaz , come avveniva invece nelle lastre Minerva. Qui, in compenso, vi è un protagonista che non si può ignorare: il Maggiore Gabriele D'Annunzio sul suo aereo prima del volo su Vienna (60).

Quanto ai civili, che a loro volta patirono la guerra, compaiono una volta sola, per le strade di Pordenone liberata e in festa (58).

I luoghi

Le didascalie delle immagini mostrano che l'intento documentario si traduce prima di tutto nell'ubicazione precisa della scena fotografata: il tratto di fronte e la località sono i primi dati che ci vengono forniti poi il tempo. Si offrono a noi celebri montagne come l'Adamello (36, 37, 38, 39, 40), la Marmolada (27), il Grappa (52, 53, 54), il Podgora (18) o celebri fiumi come il Piave (42, 43) e l'Isonzo (19, 26). Neve e rocce: paesaggi in cui la vita è difficile. Corsi d'acqua: ostacoli da superare soprattutto quando i ponti sono stati distrutti o danneggiati dal nemico.

Al di là dei nomi geografici circoscritti e ben precisi, il luogo che ha il massimo potere di simboleggiare la Grande Guerra è la trincea , raccontata in tutto il suo orrore da letteratura e storiografia. I soldati in prima linea sul fronte occidentale del conflitto vivono – se così si può dire – in trincea. Marzocchi ci mostra non solo le trincee scavate nel terreno (15, 42, 51) ma anche attendamenti (12, 13) e ricoveri realizzati in dolina (9) o aggrappati alle rocce (52). Qui non è difficile immaginare quanto la sopravvivenza fosse alienante.

Nel campo nemico la condizione non è diversa (5, 20): la guerra è “democratica”.

E' molto interessante l'immagine 55 che documenta quanto spesso si è letto in scrittori e storiografi: la vicinanza delle linee nemiche trincerate sul Grappa innevato e quindi la vicinanza fisica dell'avversario, percepito presente e minaccioso anche quando non si combatte.

Le armi

Molte immagini sono dedicate alle armi e ai mezzi da combattimento ovvero a quella che potremmo chiamare la guerra tecnologica . Questo tipo d'interesse non è mai scomparso se si pensa all'attenzione prestata agli aerei da combattimento durante la guerra contro l'Iraq o nel Kossovo, pur essendo nel frattempo cambiato radicalmente il modo di rappresentare la guerra proprio della fotografia.

Nella prima guerra mondiale avevano fatto la loro comparsa mezzi come i carri armati, i sommergibili, i lanciafiamme, le armi chimiche e gli aerei erano stati utilizzati per la ricognizione e i bombardamenti. Il nostro paese non si segnalava per la modernità dell'armamento ma i mezzi più nuovi e conturbanti (MAS e aerei) ebbero poi i loro eroi

Marzocchi ci propone un MAS in navigazione (2), un idroplano incursore (3), l'aereo di D'Annunzio (60), mortai di vario calibro (10, 16, 21, 41, 50, 56), mitragliatrici (34, 45). L'impressione è che vengano offerti all'ammirazione come ritrovati della tecnica e della modernità e non certo come strumenti di morte.

Gli effetti

La morte è l'effetto più “normale” della guerra. Nelle immagini di Marzocchi però come, del resto, nelle lastre Minerva si censura la morte degli uomini proponendo tutt'al più la distruzione delle cose come risultato della guerra.

Gli effetti dei bombardamenti vengono mostrati non solo su manufatti umani come l'ospedale militare di Cervignano(4), la chiesa di Savogna (17), il paese di Serravalle (33) ma anche sul terreno trincerato (8, 18, 20, 44) su quel paesaggio sconvolto e isterilito dalla guerra che è l'ambiente a cui i soldati debbono assuefarsi. Mancano i cadaveri degli uomini. Certamente l'impatto sulle cose e sulla natura è tale che non può non provocare sentimenti di tristezza e di sdegno ma senza corpi d'uomini morti l'orrore è attenuato.

Se nell'osservare queste immagini ne assecondiamo l'intenzione, anziché interrogarle con la sensibilità di oggi, scopriamo che si preferiva che gli effetti della guerra fossero altri: il cameratismo e la collaborazione, il coraggio e l'audacia. Io credo che non solo chi produceva queste immagini ma anche chi ne fruiva chiedesse in quel momento questa lettura.

Mistificazione? Memoria propagandistica? Malafede?

Riflettendoci a mente fredda e anche se può sembrare assurdo, si deve ammettere che il pregio di questi scatti consiste nella loro mancanza di oggettività – ammesso che l'oggettività esista e io ne dubito. Sono immagini datate, a doppio titolo documenti storici . Ci trasmettono una rappresentazione di un evento storico attraverso il gusto estetico, la sensibilità morale, lo sviluppo tecnico, i pregiudizi e le attese della sua epoca . Appartengono al momento in cui la società tutta aveva deciso di “vedere” alcuni aspetti della guerra mentre veniva combattuta e, una volta conclusasi la carneficina, far prevalere sul ricordo dell'orrore il ricordo del sacrificio, non sempre compiuto con entusiasmo, molte, troppe volte richiesto senza spiegazione e senza giustificazione. Chi usa la macchina fotografica si autocensura e chi “consuma” le immagini non vuole vedere la tragedia. Si vuole una “assoluzione” della guerra. Le si vuole assegnare un significato “alto”, che a noi oggi sembra frutto di una mistificazione o di un colpevole edulcoramento. Se una delle funzioni indirette e positive avute da questo conflitto è stata quella di “fare gli Italiani” dalle immagini fotografiche più affollate di uomini, uomini indistinguibili eppure diversi, viene la conferma di un'osservazione più volte fatta dalla storiografia: nelle trincee della Grande Guerra gli Italiani delle varie regioni si conobbero e acquisirono una coscienza nazionale.

Per quanto sia “magica “ la stereoscopia, di fronte a queste immagini noi fruitori di oggi, abituati come siamo dagli effetti speciali del cinema ad emozioni intense, restiamo inizialmente delusi. Dov'è la guerra? Ci stanno prendendo in giro? In guerra si muore e qui si sta in posa. Comincia a questo punto il lavorio interpretativo. Materiali di questo genere sono estremamente utili non perché ci dicono “la verità” sulla guerra ma perché ci consentono di studiarne una rappresentazione nella storia e questo esercizio matura l'intelligenza critica ed interpretativa e permette di capire sia gli Italiani di allora sia quelli di oggi cioè noi.

Meris Gaspari

 
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